Cronaca di un giorno non qualunque
Una sensazione, lontana, indefinita e ovattata. Una sensazione di fastidio, di disagio. Un sonno bruscamente interrotto. Il cuore che comincia a battere forte. Un fastidio interiore, che nasce dal profondo e provoca un effetto angosciante. Mi sveglio di soprassalto senza capire cosa c’è. Quando ritrovo me stesso e realizzo che la fonte del mio fastidio altri non è che la soneria della mia sveglia, vedo il buio attorno. Le cinque e tre quarti di mattina e da molti minuti la soneria mi sta trapanando il cervello. E’ una domenica di una primavera in ritardo. E’ il modo migliore per rovinarsi la possibilità di una giornata di dolce far nulla. E’ il giorno della gara. Il primo istinto è quello di girarmi dall’altra parte e riprendere a cullarmi con i sogni interrotti (che sicuramente erano dolcissimi e rilassanti). Ero avvolto da un sonno profondo e immobile, cullato beatamente fra le braccia di Morfeo in un batuffolo di coperte avviluppanti. Non so chi me lo fa fare e soprattutto se riuscirò ad alzarmi. Anche perché ieri sera ho fatto le due per finire il modello. Non che non fosse finito anche prima, ma come al solito ho sempre rinviato alcuni lavoretti compreso quel “breefing” finale indispensabile prima di ogni corretta uscita di gara. Poi appena presa in mano “la creatura”, ecco che si trovano i difetti, le manchevolezze, i dettagli da aggiungere. E siccome sono tutte cosette da dieci minuti di lavoro al massimo, sommandone una all’altra si è fatto tardi. Tardissimo. E nella mia serata di ore piccole in laboratorio ho trascinato anche M. Per fortuna: se non ci fosse stato lui non avrei mai finito in tempo. Ma ora sono già le cinque e tre quarti. Anzi le sei meno cinque. E’ tardissimo e ancora qualcosa c’è da fare.
Facendo violenza a me stesso mi rovescio fuori dal letto. Mi conosco troppo bene, e so che se non mi alzo subito mi riaddormento e allora addio gara. Su M. non conto, non è possibile fare affidamento su chi per abitudine si alza dopo le dieci (solo di domenica s’intende). Infatti quando lo chiamo è nella fase di sonno più beato e intenso che offra la notte. A chiamarlo mi sento una bestia, ma lo faccio. Lui manda un ruggito, quindi controlla l’orologio e si fionda verso il bagno.
Scendo in laboratorio e preparo la cassetta attrezzi, carico in automobile i modelli e una borsa con i ricambi in caso di pioggia. Poi vado in cucina. E’ troppo tardi per preparare il té caldo, quindi borracce e bottiglie d’acqua e qualcosuccia trovata rovistando in frigorifero. La volta scorsa eravamo organizzatissimi con panini, té caldo e freddo, bibite e biscotti. In gara non ci hanno dato respiro. Non una sosta e poi tutti al ristorante prima della premiazione. Tranne noi, che soli soletti abbiamo mangiato i panini in macchina. Scomodi e al buio.
La strada per arrivare è piena di curve affrontate in piena velocità. Velocità relativa ad una FIAT 126 (la macchina di mamma), cosa che in salita non è significativa, ma in discesa diventa una corsa da brivido. Arriviamo che mancano solo 10 minuti all’inizio, trafelati con M. sconvolto dal mal di mare. Fa un freddo pungente accompagnato da un vento maligno. Il prato è fradicio di rugiada o forse di qualche pioggia notturna, il sole si intravede dietro una foschia raggelante. Ho le mani gonfie dal freddo e non riesco a fare la messa a punto che con difficoltà. Mi riprende più forte che mai l’interrogativo di stamani: ma chi me lo fa fare? E se rinunciassi? Ma già vedo le facce degli scettici a ridere sotto i baffi per la mia defezione. Mi infilo gli stivali di gomma e mi accingo a lanciare per una prova. Il modello va benino, ma non ho altro tempo per provare. E neppure per pensare.
E’ già aperto il primo lancio e sono sul punto di partenza col modello in mano dal rientro del recupero di prova, sudato ed eccitato, impaurito e superagitato. Accade sempre al primo lancio, soprattutto all’inizio della stagione e c’è sempre quel desiderio latente e neanche tanto inconscio di non partecipare neppure.
Mentre le partenze si susseguono vedo approssimarsi il campione italiano uscente e decido che lo seguirò. E’ un’ottima garanzia di riuscita. E in effetti lui lancia perfettamente controvento direzionando leggermente sulla sinistra. Dopo pochi secondi parto anch’io. Ma il mio modello parte sparato a destra perché l’ho direzionato male. Mi lancio in un inseguimento folle, attraversando prati e vallette, scavalcando fili spinati con un balzo solo (all’epoca potevo). Ho l’ansia di perderlo alla vista. Ogni qualvolta il modello perde un po’ di quota mi sento il cuore in gola. Faccio tutti gli scongiuri che mi passano per la testa perché salga, faccia quota.
Guardo l’orologio quando mi sembra passata un’eternità. In realtà è passato da poco un minuto. Ne mancano un’infinità alla fine, e faccio una stima di quanto potrebbe fare ancora in volo se si infilasse ora in una discendenza. E’ difficilissimo controllare il cronometro in corsa, eppure continuo a guardarlo. Due minuti e il modello e lì. Ne alto ne basso, ne intenzionato a salire, sempre pronto a scendere. Tre minuti e il cronometro rallenta vistosamente. Non c’è altra spiegazione. Oppure sono io che ho 500 battiti cardiaci al minuto. A quattro minuti io sono sceso a valle ma il modello pur essendo molto davanti a me ha ancora una bella quota. Comincio ad esultare perché anche in caso di cattivissime condizioni il tempo cronometrato è ottimo.
Dopo cinque minuti di corsa il modello è ancora in quota ed io non ho più fiato per continuare. Prima ancora di esultare mi blocco improvvisamente assalito da un dubbio angosciante: l’autoscatto! L’ho acceso oppure no? Mi tremano un po’ le gambe a pensare che il mio modellino cui ho tanto lavorato ed a cui sono tanto affezionato se ne possa andare così. Non so a che santo votarmi e malgrado mi sforzi, non riesco a ricordarmi se ho azionato o no la fatidica levetta di quel malefico strumento a molla che fa scattare l’antitermica.
Continuo a guardare il cronometro. Cinque minuti e venti. Non succede niente. Cinque e venticinque, ed il modello è là che vola stupendamente con una quota favolosa e sempre più lontano. E’ sempre così: la quota si fa solo quando l’autoscatto è fermo. Faccio fatica anche a vederlo da tanto è distante, e mi rendo conto che ho il cannocchiale a tracolla e che mi ha dato anche parecchio fastidio durante la corsa sbattendo qua e là. Ma non posso perdere dalla vista l’aereo neppure un istante perché le operazioni di sfilarle il cannocchiale dalla fodera, togliere i tappi, inquadrare il modello, sono talmente lunghe e complicate che finirei per perderlo di vista.
Cinque e trenta. Il dubbio mi rode e la speranza si affievolisce. Improvvisamente il modello si impenna e comincia la sua dolce discesa. Tiro un sospiro liberatorio e mi incammino verso il punto di probabile approdo; dolcemente perché ho accumulato non so quanta adrenalina. Maledico la mia paura di tarare l’autoscatto esattamente sui cinque minuti. Ma di cosa ho paura? Se voglio un margine di sicurezza dieci secondi sono già un’enormità. L’aereo scompare dietro dei collinoni e mi rendo conto che non ho preso neppure un traguardo direzionale. Mi volto e cerco di farmene uno. Poi riparto con l’ansia di non ritrovarlo che mi assale tutte le volte che non lo vedo atterrare e penso che non farò più gare per non patire questi stress. Affretto il passo e supero la collina. Ma dopo ce n’è un’altra. La supero quasi correndo ed ecco là davanti il giallo e rosso fluorescente inconfondibile. Ora che il modello è a vista mi avvicino con malcelata soddisfazione per il volo appena fatto. Quando mi incammino per il ritorno faccio alcune considerazioni. Prima: in cinque minuti un modello può fare chilometri; vedo il punto di lancio in distanza tale da chiedermi in quanto tempo lo raggiungerò. Poi penso a M. che ho abbandonato a se stesso nel momento in cui ho lanciato. Ora ho perso la cognizione del tempo. Quanto è passato da quando ho lasciato il punto di lancio? Mezz’ora? Un’ora? Dieci minuti? Sono immerso in una meravigliosa solitudine. Mi accorgo che attorno a me c’è il silenzio e la tranquillità della montagna che si avverte solo nelle località turistiche fuori stagione. I rumori delle automobili sono radi e distanti, e la gente del pendio è un brulichio in cima al collinone che ricorda quei formicai fatti di aghi di abete con alla sommità un certo movimento. Di tanto in tanto qualche aereo si stacca da lassù, e in lontananza davanti a me distinguo delle persone che risalgono con un modello in mano. Nei campi coltivati dei gruppi di persone lavorano, nei prati verdissimi spiccano i fiori gialli di “denti di cane” e le margherite. Chi “sfalcia”, chi prepara i reticolati in previsione di portare il bestiame. C’è il tempo di filosofare, e mi impongo di non forzare troppo il passo altrimenti mi stronco.
Appena giungo sul punto di partenza si chiude il primo e si apre il secondo lancio. Sono piuttosto affannato, e chiedo notizie di M. Ma non faccio in tempo ad averne che sento il mio punto di riferimento (all’epoca era uno dei miei idoli), dire a qualcuno che il momento è ottimo e che lui rilancia. Non perdo tempo. Controllo i traguardi del profondità, verifico il magnete, carico l’autoscatto e prenoto un cronometrista. Appena fatte queste operazioni, realizzo che lui è già in volo con la stessa direzione un po’ a sinistra di prima e la stessa ottima partenza. E allora via anch’io. Con la stessa cretinata di prima, col modello che parte sparato sulla destra. E allora? Allora stessa volata da centometrista di prima, con la stessa ansia che il modello scompaia alla vista.
La dinamica è anche migliore del lancio precedente, e subito c’è una grande ascensione. C’è anche un pallido solicello per cui ci sono termiche diffuse. Sono un po’ più tranquillo ma continuo a guardare l’orologio. Ai quattro minuti ho già la certezza di un secondo “pieno” e sono raggiante. Ma dopo i cinque minuti ancora l’atroce dubbio: l’autoscatto. Maledizione, ma perché non ho fatto attenzione se nel caricarlo l’ho anche avviato. Ai cinque e trenta mi sto maledicendo, ma l’impennata liberatoria c’è anche stavolta. Non posso continuare con questo stress, devo fare qualcosa. Tanto per cominciare potrei lasciare alla base il cannocchiale che anche stavolta mi sono portato appresso e poi ho dimenticato di usare. Fra l’altro è estremamente ingombrante.
Il recupero mi da le stesse sensazioni di prima, con in aggiunta la maggiore gioia di due bei lanci anziché uno. In questo momento adoro le gare di aeromodellismo. Ma la strada è altrettanto lunga che in precedenza, e sono anche un po’ stanco per le corse.
Arrivo sul pendio allo scadere del secondo lancio. Di nuovo incrocio il mio idolo che sta predisponendosi alla partenza. Ho un’esitazione dovuta alla stanchezza, ma la gara ed il risultato passano sopra a tutto. Poi da qui sopra è tutto più facile. I brutti pensieri vengono quando si è in fondo alla valle. Parte lui e parto anch’io. Ancora a destra ma ancora una bella dinamica che mi manda in quota. Poi però la planata è tutta in assenza di ascendenze. Stavolta l’inseguimento si ferma dopo quattro minuti, sia perché non ce la faccio più a correre, sia perché ho paura che il modello scollini per cui non vedrei dove atterra. Sono in tensione perché il volo è bassissimo e stringo i denti anche se so che non serve a niente. Mentre soffro in silenzio mi attraversa un pensiero: stavolta anche se ho dimenticato l’autoscatto non succede niente. Magra consolazione. L’ultimo minuto sembra un quarto d’ora. Ma il pieno è fatto ed il modello arriva anche ad andare in antitermica a due metri da terra. Si spaccano entrambi i doppi diedri per il contraccolpo sul terreno. Spero di fare una buona riparazione e di non incollarli storti.
Quando arrivo al punto di lancio è l’una e un quarto. Non sento più le gambe, ho le cosce completamente indurite dal freddo e dalla fatica. C’è una pausa dall’una all’una e mezzo. C’è anche M. e la prima cosa che facciamo è chiederci come va la gara. Lui ha sbagliato il primo lancio ma non di molto. Poi constatiamo che anche stavolta ci siamo fatti fregare. Non abbiamo praticamente niente da mangiare e c’è la pausa per il pranzo. Il sole non si vede più da parecchio, siamo sudatissimi fa un freddo da battere i denti e comincia a piovere. Sono stanchissimo anche mentalmente. Non vado neppure a cercarmi una giacca a vento e mi dimentico che gli stivali di gomma mi stanno facendo venire le vesciche.
Apre il quarto lancio ed ho mangiato un’arancia, un pezzo di pane e bevuto dell’acqua gelata. Il poco tempo che avevo l’ho passato ad incollare i diedri rotti. Ma la gara incombe e sta piovendo a dirotto. Nessuno osa lanciare per un quarto d’ora. Siccome la pioggia non intende cessare, qualcuno cede. Cioè lancia ottenendo voli disastrosi. Continuo a saltare da un posto all’altro col modello in mano. Ho freddo ma non voglio perdere di vista il pendio per paura di vedermi scappare l’unico momento di “buona” del pomeriggio. Ma non c’è niente e infine a dieci minuti dalla fine, quando si sta alzando un vento a raffiche di traverso, lancio alla disperata e via a correre. Non faccio nulla di buono e dopo due minuti e quaranta il modello sbatte su di un reticolato, si squarcia e sono più lontano di prima dal punto di lancio. La poesia dei primi recuperi è un ricordo. Non ho fatto il “pieno”, sono distrutto fisicamente e manca solo un’ora alla chiusura dell’ultimo lancio che vedo come un miraggio, come la parola fine ad una giornata di sofferenza assurda. Penso a quale posizione avrò in classifica, a quanta gente mi sarà passata davanti, a chi me lo ha fatto fare. Poi mi immergo in pensieri assai differenti da quelli di stamani. Lo studio, il lavoro, i rapporti umani non sempre facili. Sono costretto a fermarmi perché non riesco più a salire. Sono fradicio, ho le vesciche ai piedi, non riesco più a stendere le gambe per la fatica. Riparto con quel briciolo di volontà che mi è rimasta. L’unica consolazione è pensare che il prossimo recupero potrò farlo con molta calma.
Arrivato di sopra ho solo il tempo di stimare a spanne quanto sono scivolato in basso nella classifica, poi bisogna rilanciare perché manca pochissimo alla fine della gara. Riparo alla bell’e meglio con scotch e cerotti. Le condizioni del vento sono radicalmente cambiate, la pioggia no. Sono l’ultimo a lanciare, stavolta si derapa tutto a sinistra. Troppo. In rotta di collisione c’è un bosco che mi aspetta con aria lugubre. Sono costretto a correre per avere un traguardo di riferimento sicuro. Sarà la discesa o la forza della disperazione, ma riesco ancora a correre.
Non ho neppure azionato lo start del cronometro, quindi quando lo vedo incastrarsi sulla cima dell’albero più alto di tutto l’Altopiano non ho neppure idea di quanto sia rimasto in volo. Con calma raggiungo l’albero per vedere se è scalabile. E’ un abete secolare fittissimo e pieno di rami e rametti secchi. Non sarà facile ma si deve fare. Quando sono in cima ho il viso graffiato e la camicia completamente sfilata. Lo prendo per un’estremità e lo sposto verso una radura nella quale lo lascio cadere di piatto cercando l’effetto antitermica. Ma l’operazione riesce fino ad un certo punto. Il modello scivola dolcemente ma inesorabilmente su un altro abete. Avrò perso si e no tre metri di quota. Mentre scendo calcolo che se mi sono arrampicato dodici metri e buttando in basso il modello ne perdo tre alla volta, con quattro scalate e in due ore ne sono fuori. Ma per fortuna la faccenda si risolve prima. Il rientro è caratterizzato da una sorta di rassegnazione mista a tranquillità dovuta alla chiusura della competizione. Sono di nuovo in pace con il mondo perché ho il mio modellino in mano, e non mi disturba più neppure la pioggia.
Quando finalmente raggiungo il punto di lancio è già l’imbrunire, sono tutti andati via e M. ancora non si vede. Sono fradicio. Ho il tempo di cambiarmi ma soprattutto togliermi gli stivali di gomma. Un vero sollievo. Ripongo tutto in macchina facendo più viaggi e poi prendo il cannocchiale che finalmente uso. Per cercare M. Passa del tempo prima di vederlo sbucare dal bosco col modello in mano. Quando arriva alla macchina è praticamente buio. Ma arriviamo ad assistere alla coda della premiazione, nella quale sono omaggiati i primi cinque e io sono arrivato sesto con un bel recupero grazie all’ultimo lancio. Non ho neppure la soddisfazione di un trofeo.
Il ritorno a mani vuote inizia con i racconti ed i bilanci. M. ha scalato un’infinità di alberi, è arrivato dopo di me ma si è preso qualche soddisfazione alla fine. Dopo un’ora nessuno più parla e la strada è ancora lunga. Ed ecco ritornare la domanda che mi ha perseguitato fin da ieri: ma perché faccio tutto questo? C’è forse qualcuno che mi obbliga? Non potrei stare a casa in poltrona e ciabatte a poltrire col cervello parcheggiato sul comodino che tanto non serve? E il pomeriggio davanti alla Tv a guardare il gran premio di F1 e poi 90° minuto?
Ma a queste domande contrappongo una sensazione fortissima. Che mi impone di rifare tutto il prima possibile, di essere già in attesa della prossima gara. L’ansia, la fatica, gli errori fanno parte del gioco delle competizioni dell’aeromodellismo, e se dovessi rifare tutto lo rifarei anche domani. Perché? Perché tutto questo è bellissimo. Perché l’F1E (solo chi lo pratica lo sa) è poesia pura.
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